martedì 21 dicembre 2010

ink

Quella sera ero blu.
Ricordo ancora la tua mano che vergava con delicatezza, traducendo i ricordi in storia, dando forma ai pensieri, facendo scorrere liquidi gli umori.
Delicatezza e violenza nello stesso tempo, come se volessi estirpare ogni goccia, come se tutto quello che era stato nel nostro passato potesse esaurirsi e sintetizzarsi in quell'unica azione.
Mi avevi sempre conservato in un cassetto della tua fantasia. Per te ero sempre stata una superficie candida da non insozzare con il tuo stile grossolano, con la tua scarsa pratica...avevi paura di compromettere tutto.
Che idiota sei stato. Quanto ci hai messo a buttarti, chissà magari l'avessi fatto prima le cose sarebbero andate diversamente.
Eppure ti attraevo. Volevi farlo. E, alla fine, hai finalmente ceduto a quella vocina dentro di te. Mi hai presa, mi hai distesa sul tavolo. Non sapevi bene da dove cominciare, ma avevi quello sguardo deciso di chi è certo di fare la cosa giusta.
Mi piaceva la sensibilità del tuo tocco e il ritmo del tuo movimento. Ogni tanto ti fermavi un momento, quasi a riordinare le idee, tiravi gli occhi all'insù, poi mordicchiavi nervosamente la punta e riprendevi, infaticabile come un amanuense, finalmente pronto ad andare a fondo, messe da parte le esitazioni, i tremolii, la tua eterna indecisione persino in un momento così fatale. E mi riempivi l'anima.
Ma a che serve dirti queste cose adesso, quando ormai tutto è perduto? Quando ormai sono solo una traccia invisibile della tua vita, persa in un cammino che porta non so dove, ma certamente non nella forma che avevi previsto.
Non abbatterti, non puoi farci nulla e probabilmente mai saprai come i miei ricci, le mie curve, le molte tracce che hai lasciato su di me, tutto sia scomparso così in fretta.
Frasi sconnesse e pensieri articolati fluttuano nell'etere, privati della loro concretezza in assenza del corpo. E' uno dei limiti dei linguaggi non verbali.
Quello che invece credo è che la pagina che è stata scritta quel giorno non sia frutto della tua fantasia. E' esistita davvero. Solo per un attimo, quell'attimo. Quello in cui hai apposto il tuo nome su di me.
Il resto, è inchiostro che si cancella.
Scusami per essere stata così trasparente.

lunedì 6 dicembre 2010

l'essenzialita dell'ovvio

G. si puliva la suola della Clark sullo spigolo di un marciapiede, nauseato dall'intenso odore di merda di cane che andava spandendosi nell'aria, secondo una sua impressione in maniera sempre più invasiva ad ogni spalmata. Mentre replicava con la gamba i movimenti di un tacchino in assetto da combattimento, sul suo volto si alternavano due espressioni. La prima era di paura, paura che qualcuno dei passanti lo vedesse in un momento così penoso. E poichè ciò puntualmente avveniva, G. continuava a guardarsi attorno con circospezione, cercando di coordinare i movimenti della sua gamba con le occhiate distratte dell'umanità deambulante.
La seconda espressione era di disgusto: ogni qualvolta qualcuno dei passanti si fermava a fissarlo, lui assumeva una faccia schifata, come a volersi liberare dal senso di colpa insito nella pestata di merda. Come a voler dire: "Signori, guardate in che mondo viviamo! Uno non è neanche più libero di passeggiare per la città da onesto cittadino, che...splat! ti imbatti in queste terrificanti deiezioni che oltretutto puzzano in maniera intensissima! Certo non si può imputare il tutto a una mia goffa distrazione, ma anzi segnalerò questo abuso di inciviltà a specchio dei tempi!"

Mentre si recitava in testa il mantra autogiustificativo, da contrapporre nella probabilissima evenienza che qualcuno giungesse a schernirlo ("Ehi coglione, hai pestato un'altra merda eh? Sei quello dell'altra volta, ma perchè non guardi dove vai idiota!" ), giunse finalmente alla comprensione che a furia di sfregare, stava iniziando a consumare la suola. Altre due o tre grattate e si sarebbe ritrovato a piede nudo. Osservò con una punta di insoddisfazione la suola della Clark, che presentava ancora alcune inequivocabili macchie marroncine. Maledisse l'assenza di pioggia e pozzanghere e aiuole quando servono. Si lambiccò per qualche secondo all'idea di un paradiso terrestre in cui avrebbe potuto prendere sonoramente a calci in culo tutti i cani di cui aveva pestato gli escrementi nel corso della sua vita. Ed erano tanti!

Quindi, si avviò a passo deciso concludendo il suo inquietante monologo con l'imprescindibile classico "Che giornata di merda!".
Non si sentì meglio. Ma il suo mondo funzionava così.