martedì 21 dicembre 2010

ink

Quella sera ero blu.
Ricordo ancora la tua mano che vergava con delicatezza, traducendo i ricordi in storia, dando forma ai pensieri, facendo scorrere liquidi gli umori.
Delicatezza e violenza nello stesso tempo, come se volessi estirpare ogni goccia, come se tutto quello che era stato nel nostro passato potesse esaurirsi e sintetizzarsi in quell'unica azione.
Mi avevi sempre conservato in un cassetto della tua fantasia. Per te ero sempre stata una superficie candida da non insozzare con il tuo stile grossolano, con la tua scarsa pratica...avevi paura di compromettere tutto.
Che idiota sei stato. Quanto ci hai messo a buttarti, chissà magari l'avessi fatto prima le cose sarebbero andate diversamente.
Eppure ti attraevo. Volevi farlo. E, alla fine, hai finalmente ceduto a quella vocina dentro di te. Mi hai presa, mi hai distesa sul tavolo. Non sapevi bene da dove cominciare, ma avevi quello sguardo deciso di chi è certo di fare la cosa giusta.
Mi piaceva la sensibilità del tuo tocco e il ritmo del tuo movimento. Ogni tanto ti fermavi un momento, quasi a riordinare le idee, tiravi gli occhi all'insù, poi mordicchiavi nervosamente la punta e riprendevi, infaticabile come un amanuense, finalmente pronto ad andare a fondo, messe da parte le esitazioni, i tremolii, la tua eterna indecisione persino in un momento così fatale. E mi riempivi l'anima.
Ma a che serve dirti queste cose adesso, quando ormai tutto è perduto? Quando ormai sono solo una traccia invisibile della tua vita, persa in un cammino che porta non so dove, ma certamente non nella forma che avevi previsto.
Non abbatterti, non puoi farci nulla e probabilmente mai saprai come i miei ricci, le mie curve, le molte tracce che hai lasciato su di me, tutto sia scomparso così in fretta.
Frasi sconnesse e pensieri articolati fluttuano nell'etere, privati della loro concretezza in assenza del corpo. E' uno dei limiti dei linguaggi non verbali.
Quello che invece credo è che la pagina che è stata scritta quel giorno non sia frutto della tua fantasia. E' esistita davvero. Solo per un attimo, quell'attimo. Quello in cui hai apposto il tuo nome su di me.
Il resto, è inchiostro che si cancella.
Scusami per essere stata così trasparente.

lunedì 6 dicembre 2010

l'essenzialita dell'ovvio

G. si puliva la suola della Clark sullo spigolo di un marciapiede, nauseato dall'intenso odore di merda di cane che andava spandendosi nell'aria, secondo una sua impressione in maniera sempre più invasiva ad ogni spalmata. Mentre replicava con la gamba i movimenti di un tacchino in assetto da combattimento, sul suo volto si alternavano due espressioni. La prima era di paura, paura che qualcuno dei passanti lo vedesse in un momento così penoso. E poichè ciò puntualmente avveniva, G. continuava a guardarsi attorno con circospezione, cercando di coordinare i movimenti della sua gamba con le occhiate distratte dell'umanità deambulante.
La seconda espressione era di disgusto: ogni qualvolta qualcuno dei passanti si fermava a fissarlo, lui assumeva una faccia schifata, come a volersi liberare dal senso di colpa insito nella pestata di merda. Come a voler dire: "Signori, guardate in che mondo viviamo! Uno non è neanche più libero di passeggiare per la città da onesto cittadino, che...splat! ti imbatti in queste terrificanti deiezioni che oltretutto puzzano in maniera intensissima! Certo non si può imputare il tutto a una mia goffa distrazione, ma anzi segnalerò questo abuso di inciviltà a specchio dei tempi!"

Mentre si recitava in testa il mantra autogiustificativo, da contrapporre nella probabilissima evenienza che qualcuno giungesse a schernirlo ("Ehi coglione, hai pestato un'altra merda eh? Sei quello dell'altra volta, ma perchè non guardi dove vai idiota!" ), giunse finalmente alla comprensione che a furia di sfregare, stava iniziando a consumare la suola. Altre due o tre grattate e si sarebbe ritrovato a piede nudo. Osservò con una punta di insoddisfazione la suola della Clark, che presentava ancora alcune inequivocabili macchie marroncine. Maledisse l'assenza di pioggia e pozzanghere e aiuole quando servono. Si lambiccò per qualche secondo all'idea di un paradiso terrestre in cui avrebbe potuto prendere sonoramente a calci in culo tutti i cani di cui aveva pestato gli escrementi nel corso della sua vita. Ed erano tanti!

Quindi, si avviò a passo deciso concludendo il suo inquietante monologo con l'imprescindibile classico "Che giornata di merda!".
Non si sentì meglio. Ma il suo mondo funzionava così.

domenica 28 novembre 2010

decostruzioni

Il buio potrà anche non aiutare la vista.
Ma certamente offre esperienze primitive agli altri sensi.
L'olfatto è denso, pregno e carico. Di rabbia, di solchi. Di sbuffi di tensione impossibili da descrivere eppure così facili da respirare.
L'udito è una molla in sospensione, pronta a scattare alla minima vibrazione prodotta dal respiro dell'altro.
Il tatto è uno spazio di libertà e di movimento, ma contemporaneamente di attesa e paura.
Attesa e paura che la prima mossa venga fatta.

Eppur nulla si muove. I due corpi rimangono in quello stallo di tensione nevrotica, specchi fedeli delle menti che li comandano.
Le parole ovviamente sarebbero di troppo. L'aria è talmente satura di elementi, da non poter sopportare un ulteriore livello di scontro.

Non ci sono pareti, solo il vuoto li circonda. Un vuoto enorme, siderale, emblematico. Il loro.
Rimangono così ancora un po' i due corpi, annichiliti dalla potenza della loro stessa creazione. A chiedersi silenziosamente perchè si renda necessario un'atto finale. Perchè le cose non possano rimanere in sospensione per sempre, senza essere spiegate. Perchè l'uomo non sia in grado di convivere con le porte socchiuse, ma solo con quelle spalancate o sprangate.

-Perchè la storia è ciclica. Circolare. Perchè la fine ne è il senso, risponde Dio ad entrambi, interiormente.
La risposta li lascia insoddisfatti, ma non desiderosi di replicare.

Man mano che si avvicinano, sentono i pensieri evaporare. I ricordi scomparire, i sentimenti affievolirsi. La tensione sciogliersi, l'anima fuggire.
Gli ultimi ad andarsene sono i sensi, nudi.

lunedì 8 novembre 2010

Artis...si, ma...

Sabato sono andato ad Artissima.
Ci sono andato da solo, spinto da motivazioni personal-intellettuali che non sto qui a spiegare.
La location ove si svolgeva la kermesse, che richiama annualmente più radical-chic e indie-like di una distribuzione gratuita di occhiali da nerd, era l'oval del lingotto.
L'installazione principale era una casa (due piani, dimensioni naturali) fatta di immondizia e riciclato, con tanto di scale ornate da bucce di banana, pareti di cartone e sperimentazione distribuita un po' qua e un po' là.
Ora, a me piace la sperimentazione. La provocazione. L'originalità. La rottura col passato e con gli schemi. Tutto quello che vuoi.
Però se ho appena sborsato 15 euro per vedere non dell'arte, ma il suo superlativo, e poi mi presenti l'apoteosi della monnezza, mi girano anche un po' i coglioni.
Il tutto poi condito da una sfilata di personaggi cool, torinesi e non, che se già meritavano badilate in faccia per l'abbigliamento (maglioni da artista - ovvero sdruciti e dai colori improbabili - bretelle, quadrettoni ovunque, maschi coi fuseaux, sembrava un incubo in stile lynch), offrivano il fianco a una dose supplementare di randello con espressioni di supponenza a malapena giustificabili dopo la creazione di un giardino dell'Eden.
E invece no. Il massimo della creazione ad Artissima era una casa di immondizia.
Vabbè che l'attualità fa scuola, vabbè che il riciclo dei materiali è la risorsa del futuro, ma il senso estetico non dovrebbe elevarsi almeno un po' dal reale? Non è questa la sua missione? Che volete, sarò io l'ignorante.

giovedì 4 novembre 2010

2010 odissea della ratio

In questa fase di grandi incertezze, che attraversa tutti gli ambiti della società occidentale, dall'asse economico a quello sociale, da quello morale a quello politico, è sempre più centrale il ruolo giocato dall'informazione.
In particolare, ci si chiede sempre più spesso quali sia il trade-off ideale tra pubblicazione e segretezza, tra diritto all'informazione e diritto alla sicurezza, tra visibilità sottesa alla funzione pubblica e tutela della privacy, tra censura selettiva delle notizie e proliferazione incontrollata e inattendibile di rumours.

L'Italia è in questo momento un drammatico esempio di questa lacerazione.
Da un lato un potere politico accentratore, che detta alla catena mediatica proprietaria l'agenda delle notizie, mettendo in crisi un modello di pluralismo informativo che appare inalienabile a una società moderna. Viene da chiedersi a questo punto se l'Italia sia non solo una società, ma una civiltà moderna nel suo insieme.

Dall'altro lato, gruppi editoriali politicamente connotati si arrogano il ruolo di detentori di una verità di segno opposto, ma altrettanto assoluta e incontrovertibile. A questa corrente si accostano in folto ma disordinato sciame i bloggers, i citizen journalists e in generale una fetta maggioritaria dei fruitori abituali della Rete, che utilizzano questo medium anche o soprattutto in virtù della sua distanza dai media mainstream.

Questa opposizione - anche ideologica - genera uno scontro verbalmente e istituzionalmente sanguinoso, in quanto il primo gruppo tenta di chiudere preventivamente il rubinetto del dissenso, anche se talvolta si tratta solo di un gocciolìo, mentre il secondo gruppo sfrutta qualsiasi varco per danneggiare politicamente l'avversario, compresa la diffamazione gratuita.

La questione - che potrebbe essere solamente di concetto- ma è anche di terribile attualità, è la seguente: la vita pubblica DEVE essere condivisa?

La risposta è troppo complessa per essere univoca. 
I difensori della privacy sostengono, non a torto, che una scena pubblica costantemente sotto l'occhio dei media provochi inevitabilmente un problema di instabilità politica. 
D'altronde la trasparenza si rende necessaria, specie in una contingenza come quella attuale che vede un assottigliamento generalizzato delle risorse disponibili e impone dunque un controllo severo della gestione delle stesse.

Tuttavia è inquietante e non risolutivo pensare al nostro mondo come al GF collettivo immaginato da Orwell poco più di 50 anni fa. Seguono infatti problemi endogeni di authorship: chi racconta cosa, quanto è attendibile, per quale motivo lo fa?

E allora? Come ci si pone di fronte alla crescente complessità e varietà del sistema mediatico? Come si preservano due diritti fondamentali dell'uomo, come il diritto all'informazione e la libertà di espressione, garantendo contemporaneamente la sicurezza degli Stati? Di certo non gettando in pasto a una popolazione (solo apparentemente) lobotomizzata un surrogato di informazione parziale ed edulcorata, ansiogena e rassicurante a seconda della strategia messa in atto dal potere.

Le possibilità offerte dai nuovi media hanno visto l'emergere dei cittadini come partecipanti e attivisti dell'informazione, non più come semplici fruitori. Ciò ha creato un enorme rumore, problemi di attendibilità e verifica delle fonti, ma anche una sensazionale e decisiva affermazione del pluralismo, come entità e sostanza.

Al momento politica e informazione continuano a combattersi, cercando di segnare il confine delle competenze dell'una nei confronti dell'altra, come se si trattasse di due unità mutuamente esclusive e prive di correlazione.
I conflitti istituzionali in atto sono guidati in parte da giochi di potere in stile prima repubblica, in parte da torbidi interessi economici; ma la loro diffusione ed eco è stata determinata indubbiamente dai media digitali, dal citizen journalism, dai movimenti dal basso, dalla forza dei molti.

Per quanto la politica tradizionale si ostini, come di consueto, ad ignorare le voci del presente, attestandosi presuntuosamente su posizioni reazionarie e di chiusura, i recenti avvenimenti nordafricani sono il segno dei tempi che cambiano.

Politica e informazione sono ormai due facce della stessa medaglia. I molti cittadini che vogliono partecipare attivamente a questa fase di transizione, stanno via via scoprendo e cavalcando le potenzialità di una democrazia tecnocratica allargata. Che non significa che tutti debbano fare politica. Ma comporta lo sfruttamento della Rete come luogo di dibattito di questoni pubbliche. Comporta lo sgretolamento di una politica elitaria e oligarchica. Comporta un ripensamento delle modalità di costruzione dell'intera comunità, non più top-down ma bottom-up. 



domenica 5 settembre 2010

paint it black

E proprio quando tutto dovrebbe rallentare
e lentamente planare nell'oblio,
tu acceleri, bussando alla mia coscienza
ricordandomi la tua esistenza.

Sordo a ogni comando, galoppi imbizzarrito,
come un fantasma in sella a un nero destriero
Senza pausa, urli e strilli indispettito
come un infante sottratto al seno della notte.

Il sonno è un sogno
Immagini vorticano
le membra fremono

Niente di lucido o definito
solo spasmi introspettivi
e nebulose antitesi.
Nudo di solitudine
avvolto di libertà

Alla ricerca di qualcuno
che rimetta a posto i tuoi conti
esplori l'insondabile
e trovi solo
le tue paure.

giovedì 17 giugno 2010

vulvuzela

E' lo status symbol del momento. La sua inequivocabile forma simile a una tuba, unita all'irresistibile fascino attrattivo esercitato dall'oggetto, ne fanno un elemento irrinunciabile per l'uomo del terzo millennio. Purtuttavia, tutti se ne dicono infastiditi. Gli uomini, per quel continuo ronzio, costante e mononota, di cui non riescono a cogliere bene il significato. Le donne si concentrano maggiormente nel deprecarne le proprietà riproduttive.
Sebbene le apparenze suggeriscano che siano gli africani a potersi fregiare di una maggiore e consolidata pratica dello strumento, la giustizia divina restituisce a un popolo flagellato la meritata rivincita sui luoghi comuni e sulle troppe maldicenze dettate dall'invidia e dall'odio.
L'orgoglio di una nazione risuona forte e unito dalle Alpi alla Sicilia, da Cologno a Cinecittà, come uno sciame di api operose intente a produrre il miele del loro futuro.

Le vulvuzelas vengono prodotte da un imprenditore bergamasco di Terno d'Isola (Wikipedia)
Ripensandoci, il rumore somiglia decisamente più a quello di una lunga pernacchia.

martedì 6 aprile 2010

when the sun goes down

A volte si tratta di pura necessità. Non è desiderio di fuga, nemmeno snobismo. A chi lo vedesse invece come una forma di autoeroismo qualunquista e da quattro soldi, consiglio di provarci, una volta nella vita, e riparlarne con sé stesso a cose fatte.

Tuttavia, non intendo certo il modo in cui ci si abitua a farlo tutti i giorni. Pettinati benvestiti con gocce di sudore che siamo costretti ad asciugare col fazzolettino, frenetici con l'occhio all'orologio e l'ansia da ritardo (lett.), con un cuore che tambureggia al ritmo delle nostre nevrosi, pompando sangue alternativamente al cervello o al cazzo (perdonino le signore, fortunatamente risparmiate da quest'alternativa -ora che ci ripenso non so quanto fortunatamente) tanto per titillarci i nervi e destabilizzare ulteriormente un umore che non ne avrebbe davvero alcun bisogno.

Ma così come facevamo una volta. E non intendo da bambini, ma sin dall'alba della nostra evoluzione. Liberando sudore e adrenalina. Rilasciando endorfina. Tornando bestie. Il che ha un'accezione positiva, considerando quel che è dell'uomo.

Il corpo inizialmente reagirà con impaccio al cambio di passo. E' come se ti chiedesse: “Ehi, di solito siedo o cammino, come si mantiene quest'andatura?”. Poi il ritmo diventa costante, la fronte s'imperla di sudore. L'istinto animale fa il resto, e senza accorgertene le tue gambe rullano da sole, mentre le braccia assecondano l'armonia del movimento. E' un'armonia unica, nessun uomo ha lo stesso passo di un altro, è straordinario.

I polmoni sono il tuo basso. Il cuore la batteria. Insieme, decidono il ritmo. Immagina il pezzo più veloce ed esaltante che conosci. Coordina il tuo respiro, il tuo passo con i suoi bpm. Vivilo. Inspira, espira, veloce. Allunga i passi. Sei libero.

Poi cammina. Lascia ritornare il respiro e il battito alla normalità, mentre di pari passo, come una colata di lava lenta e inesorabile, i pensieri rifluiscono alla spicciolata, ma densi di significato e di forza. Come quando stai per addormentarti, ma più sereni.

Trova il tempo di scoprire che esistono ancora le stelle. Sdraiati a guardarle. Anche se nel cubicolo in cui ti ostini a vivere, ti abitui a non stupirti più e a guardare solo in basso. Ti abitui a non averne bisogno. A pensare di avere tutto quello che ti serve. Ma comunque non ti basta. E il verme solitario ha sempre fame.

La città è un ippopotamo indolente.
Sazio, ma almeno silente.
Non sei un misantropo. Non detesti la gente
Perlomeno, non tutta. Perlomeno, non sempre.

Solo che a volte, a volte è semplicemente necessario. Perchè certi momenti puoi goderteli solo così.
Solo. Correndo.

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sabato 13 marzo 2010

laconico

Milano. Liquidi primaverili.
Mezzelune parano l'assalto
Suole biforcute lo affrontano temerarie
Ciac Ciac.
Le luci al neon colorano il grigio
Oggetti di comodità offrono rifugio
alla confidenza dell'estraneità
Un viaggio asciuga l'imbarazzo
di un incontro annunciato
e riempie di significato
una domenica del cazzo.

alba

quando le palpebre
sono leggere come carta velina
avvolto nel silenzio indiscreto della notte
scruti l'anima
e sorridi.

points of view

Il semaforo è rosso. Lo sguardo dell'uomo alla guida fissa le case. Costruzioni maestose, seriali, quasi perfette per la sopravvivenza.

Il cane guarda gli edifici mentre si libera dei suoi escrementi nel giardino metropolitano.

La donna lo osserva pensierosa, guinzaglio alla mano.

Stupidi cani, bofonchia l'automobilista fermo al semaforo, occhieggiando distrattamente la scena. Mangiano e cagano, ma che vita di merda è?

Il cane continua a guardare l'edificio: ha finito, scondizola. La donna si china e raccoglie con perizia. Un'ombra di tristezza le vela il volto.

Potevi essere un cane, pensa.

Sarebbe stato tutto molto più facile.

venerdì 19 febbraio 2010

satisfaction

“Scegliete la vita; scegliete un lavoro scegliete una carriera, scegliete un maxi televisore del cazzo, scegliete lavatrice macchine lettori cd e apriscatole elettrici; scegliete la buona salute il colesterolo basso e la polizza vita, scegliete un mutuo ad interessi fissi scegliete una prima casa, scegliete gli amici; scegliete una moda casual e le valige in tinta, scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo, scegliete il fai da te e chiedetevi chi cazzo siete la domenica mattina; scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo d' imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete un futuro scegliete la vita, ma perché dovrei fare una cosa cosi? Io ho scelto di non scegliere la vita…”

Irwin Welsh, Trainspotting

martedì 26 gennaio 2010

quando il tempo impazzì


In principio, fu il giorno.
Poi, la notte.
Andò avanti così per un po'.
Il Tempo e lo Spazio, per gli amici Kronos e Vector, vivevano insieme,  in un loft sul monte Olimpo, soli ma felici, indisturbati e innamorati.
Vector era sempre in movimento, andava in giro per i boschi, preparava succulenti pranzetti a base di geometria euclidea ed era sempre pieno di entusiasmo. Kronos preferiva la vita contemplativa, amava la lettura e passava ore a guardare fuori dalla finestra.
Un triste giorno, Kronos si svegliò e non trovo più Vector al suo fianco.
-Dove sei finito, Vector? gridò piuttosto adirato.
-Sono partito. Quel loft era troppo piccolo per noi due. Avevo bisogno di spazio.
-Ma tu sei lo spazio, idiota.
-Appunto. Ho deciso che per essere felice, dovevo essere dappertutto, e contemporaneamente da nessuna parte.
-Va bene, come vuoi. Contento tu... concluse Kronos, cercando con falsa noncuranza di dissimulare un palese disappunto. -Tanto, io sto bene anche da solo.
Da quel momento Kronos tacque. Le giornate senza Vector non erano più le stesse, ammise a sé stesso. Non che si annoiasse, sapeva di essere un vecchio burbero e l'idea di finire in uno di quei party per titani, così rumorosi e vuoti, gli aveva sempre fatto un certo ribrezzo.
Gli piaceva la compagnia di quel simpatico casinista di Vector, anche se lasciava sempre i vestiti piegati male sulla sedia o appallottolati in cucina. E mai una volta che lavasse i piatti, per Zeus!
-Devo assolutamente trovare un modo per appagare i miei bisogni sociali! -si disse un giorno.
L'idea gli venne, naturalmente, guardando fuori dalla finestra, attività che occupava una grossa fetta delle sue giornate. Si comprò un binocolo, e si mise a osservare quei curiosi esserini che si muovevano sul prato.
Erano davvero strani.

Kronos aveva sempre guardato a quel popolo bizzarro e sottosviluppato con un sentimento di superbo disinteresse. Davanti a lui, quegli insetti erano tutti uguali. Con le loro piccole vite, tutte identiche da secoli, nascita e morte, veglia e sonno, lavoro e riposo. Per non parlare delle loro ridicole necessità corporali! Introdurre solidi e liquidi nel proprio corpo erano attività di per sé umilianti, ma espellerli era davvero il colmo della volgarità. Ricacciò con un brivido di turbamento  il pensiero dei loro accoppiamenti.

Ora che li osservava con il binocolo però, contrariamente a quanto si sarebbe aspettato, iniziava ad apprezzare le diversità, le peculiarità di ciascuno. Rimase talmente conquistato dalla magia della varietà umana, che si sentì in colpa per non essersi mai curato della loro esistenza.

Decise così di chiamare la Fretta, sua vecchia conoscente, per condividere con lei quelle riflessioni. La Fretta era un essere meraviglioso, dotato di una bellezza sfuggente e imperfetta, ma assolutamente sensuale. Kronos le espresse le sue perplessità sul genere umano davanti a un bicchiere di annata, ma lei pareva non ascoltarlo. Lo guardava con aria maliziosa, cominciò immediatamente a fargli delle avances e nel giro di un orologio lo sedusse, naturalmente saltando i preliminari.
Kronos non apprezzò affatto quest'ultimo particolare. Di solito era lui a consumare, in quell'occasione era stato consumato. Si sentiva usato. Non si erano scambiati nemmeno un paio di secondi, per Zeus!

Gli effetti di questo incontro sugli esserini non si fecero attendere.
Il tempo accelerò, sempre di più.
Fu il giorno. Poi la notte. Poi, subito, ancora giorno. Poi notte. Giorno. Notte.
Il sole e la luna si rincorrevano all'infinito. Durava tutto pochissimo.
Non si faceva in tempo a poggiare la testa sul cuscino che si era già svegli. Tutti si scontravano senza posa. Non si arrivava mai in tempo per prendere il pullman. I film al cinema non avevano il tempo di finire che già venivano programmati in TV. Aumentavano a dismisura le donne insoddisfatte.
Una situazione del genere non poteva durare per sempre.
Presto dagli esserini iniziarono a levarsi grida di protesta. Cori e striscioni venivano innalzati contro il tempo, così forti che giunsero fino alle orecchie di Kronos. Questi, ancora alle prese con la Fretta -non sapeva più come sbarazzarsi di quella ninfomane- corse al binocolo e osservò i danni provocati dalla sua distrazione. Uomini stravolti, scomparsa di valori, aziende elettriche in fallimento.
-Fuori di quiiiiiiiiiii, urlò furioso verso la Fretta, lanciando una clessidra verso la maliarda seduttrice. -Dovevo saperlo che era una cattiva consigliera, pensò amareggiato.

Il mondo era al collasso. Gli anni ormai duravano millisecondi. Le imprecazioni della gente non gli arrivavano nemmeno più all'orecchio, se non sotto forma di maledizioni sinaptiche, forma di insulto più veloce dell'universo conosciuto.
Fu in quel momento che Kronos si sentì veramente molto triste.

Stava quasi per piangere dei propri fallimenti, quando bussarono alla porta.
-Toc toc
-Chi è?
-Scusi, il Ritardo.
-No prego entri pure, nemmeno la aspettavo. Vuole dirmi chi è?
-Gliel'ho appena detto, il Ritardo.
-Si accomodi.
-Alla buon ora
-Questo dovrei dirlo io, mi perdoni. Piacere, Kronos.
-Salve. Mi chiamo Ritardo. Vengo sempre 10 minuti dopo.

Kronos rimase disgustato dalla battuta, ma quel giovane brillante gli metteva parecchia allegria. Si sfogò degli umani e della Fretta, mentre sgranocchiavano un paio di cronometri. L'atmosfera era decisamente rilassata, informale, da moltissimo tempo Kronos non aveva più provato quella sensazione di serenità.

-Sappi, vecchio titano – disse Ritardo mentre il giorno e la notte riprendevano la loro durata naturale, i treni si scusavano per il disagio, le donne tornavano ad esultare – sappi che anche se adesso mi adori, mi odierai presto, se non vuoi avere figli!!!
-Ma quali figli, stai scherzando? Ho mangiato quelli della mia ex-moglie, inoltre sono certo che sia anatomicamente impossibile.

Quella volta, per la prima volta, il tempo tiranno diede torto a sé stesso.
E il miracolo della vita sfidò le leggi  della vita stessa.
I piccoli ritardatari nacquero, si diffusero e popolarono quello strano pianeta, riportando la pace e l’equilibrio.
Ora che ne conoscete la vera storia, diffidate da chi disprezza i ritardatari, popolo eletto.


venerdì 15 gennaio 2010

bufalismi


Il bene è un caviale di cui non sempre possiamo cibarci.
L'esistenzialismo, un'amante esperta che ci coglie ancora vergini.
Credere, una bussola senza punti cardinali.
La vita, una metafora dell'universo.
La notte, la follia.
Io blu.

crawlers

...and crawling, on the planet´s surface some insects, called the human race.
Lost in time, and lost in space.
And in meaning.

Rocky Horror Picture Show

domenica 3 gennaio 2010

neve

Sarebbe dovuto arrivare a destinazione alle 23.06. L'ultimo treno notturno attraversava le Alpi a velocità sostenuta. Viaggiava solo, come sempre. Il suo sguardo era rivolto al finestrino, dal quale osservava il muretto di pietra che delimitava il percorso ferroviario. Quello scorrere velocissimo, impossibile da catturare in memoria come un'istantanea, e per questo archiviato come una linea continua, sfuggente e infinita, rievocò in lui quella scena di Strade Perdute , in cui i fari di un'auto illuminano la segnaletica di mezzeria di una strada buia, e sembrano portare direttamente all'indefinibile punto di origine dell'oscurità e dell'oblio.

Aldilà del muretto, corposi assembramenti di neve definivano l'esistenza di un territorio circostante che, altrimenti, sembrava essere stato completamente inglobato dal buio.

Il treno rallentò, prima di entrare in una piccola stazione locale. Avvertì un brivido di freddo, non seppe dire se per uno spiffero del finestrino, o perchè l'osservazione di quel paesaggio invernale ne aveva surrogato la percezione sensibile.

Una voce all'altoparlante annunciò il nome del paese, ma quando il treno si fermò non vide nessuno scendere. I minuti passarono, una sottile patina di neve andava ricoprendo i binari, sgombri grazie al continuo traffico ferroviario.

Il controllore venne ad avvertirlo. Il maltempo persistente aveva provocato un inconveniente tecnico alla macchina: vista l'ora e l'impossibilità di proseguire senza un'adeguata riparazione, il treno avrebbe terminato lì il suo percorso. Aggiunse un superfluo “Mi dispiace”.


Una rabbia cieca lo invase, ma delle circa settantamila reazioni nervose che attraversarono il suo cervello in quella frazione di secondo, nessuna raggiunse la lingua materializzandosi in verbo.

Raccolse il suo zainetto, scese nel gelo e iniziò a vagare.

Il paese era squallido. Al centro di una valle, completamente circondato da montagne, sembrava il buco di culo dell'umanità. Un buco dal quale tuttavia era stata sottratta l'umanità, visto che in giro non c'era anima viva. Il bar davanti alla stazione, che in base a una rapida analisi delle dimensioni dell'abitato doveva essere anche l'unico, era naturalmente chiuso. Le luci delle case erano spente, o schermate dalle spesse imposte anch'esse chiuse.

Non aveva un soldo. Nessun cellulare. La meta, beh quella era chiaramente andata a farsi fottere.

Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette mezzo accartocciato, dal quale estrasse ciò che rimaneva di una sigaretta. Cerco l'accendino in tutte le tasche, imprecò in sei lingue poiché sembrava essere misteriosamente scomparso. Alla fine spuntò fuori: era nella prima tasca in cui aveva cercato. Accese con sforzi immani la sigaretta. Aspirò avidamente.

Dopo alcuni minuti, iniziò a sentire l'assideramento svilupparsi dalle punte dei piedi e propagarsi rapidamente verso il resto del corpo. Ma non gliene fregava un cazzo di morire, mentì eroicamente a sé stesso.

Finalmente svenne.

Quando riaprì gli occhi, sperò di non essere in paradiso. Si sarebbe sentito in colpa. Certo nemmeno all'inferno. Non gli piaceva molto soffrire.

Un buon compromesso sarebbe andato bene, come al solito. Un bel purgatorio, né carne né pesce, la sintesi della sua vita. Sì, lo avrebbe apprezzato.

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iperrealtà


Viviamo una realtà in cui i flussi di informazione orientano la percezione della realtà stessa da parte delle persone. Il pluralismo di fonti, se mai è esistito, non c'è più. E' stato rimpiazzato da un pluralismo di media, o meglio da gruppi definiti dall'utilizzo di uno specifico medium. Il prodotto di questa babele è un dibattito caotico e sterile tra opinionizzati acritici, che si muovono all'interno della società rimodellandola secondo gli schemi proposti dalle rispettive fonti di provenienza. Il risultato è un'iperrealtà, in cui il mondo reale è esteso da quello massmediatico. Quest'ultimo, come una protesi che non risponde più al corpo in cui è stata installata, inizia a modificarne le funzioni condizionandone l'essenza.
Gli strumenti comunicativi sono non solo il teatro dello scontro tra gruppi sociali. Ne sono l'oggetto.
COMMENTI:
@dejanna Tutto deve essere ricondotto ad una visione complessa del reale, la realtà non è semplice, e se prima le nostre interpretazioni si complicavano per tentare di capire la realtà intesa come "semplice", adesso, che la realtà stessa si è complicata, spetta all'uomo il compito di semplificarla! Il pluralismo, così come ci è stato insegnato, non è più ermeneutico, ma ontologico. Le cose stanno riacquistando la forza che le interpretazioni le avevano sottratto.
La tua frase: "gli strumenti comunicativi sono non solo il teatro dello scontro tra gruppi sociali. Ne sono anche l'oggetto", diventa: "gli strumenti comunicativi non sono il teatro, sono l'oggetto degli gli scontri sociali". La differenza è sostanziale e ha implicazioni notevoli.

@andreabros sono fondamentalmente d'accordo, ma credo che gli strumenti comunicativi mantengano il loro ruolo ermeneutico, per quanto con le arcinote distorsioni derivanti dalla natura di ogni specifico medium. la proliferazione degli strumenti comunicativi li porta tuttavia a essere, oltre che mezzi interpretativi della realtà (come avveniva già in precedenza), anche mezzi di trasformazione del reale e territorio di scontro sociale.

@dejanna Ciò che contesto è la natura stessa di "mezzo" dei media. In un mondo dove tutto è "mezzo" (l'essere umano stesso è spesso considerato un "mezzo") dire che una cosa è un "mezzo" è non dire nulla di più. Reputo più onesto approcciarsi ai media in maniera "ingenua", come se fossero dei semplici oggetti, di modo che si possano raccontarc per quello che realmente sono e non per quello che dovrebbero essere.

@andreabros dejana...ma vaffanculo tu e il tuo puntiglio filologico :D :D